Il volume ha come tema centrale l’uso che è stato fatto, nel corso dei secoli, delle antichità della Calabria ai fini della costruzione di una identità regionale. Partendo dall’epoca romana si cerca di fare luce sulla percezione che, per due millenni, gli abitanti della Calabria hanno avuto di se stessi e sull’immagine che ne hanno rimandato all’esterno.
In estrema sintesi si potrebbe dire che la calabresità, l’identità culturale dei calabresi è stata rappresentata, fino a tutto l’Ottocento ed oltre, dai topoi letterari della tenacia, della sobrietà e dell’onore. Essi hanno costituito l’ossatura di un mito arcaico, di un’identità in parte orgogliosamente cercata, ma, soprattutto, inconsciamente subita dalla cultura nazionale ed europea che, a partire dal XVI secolo, aveva, sì, un atteggiamento d’attenzione, ma in fondo godeva di un sottile divertimento, rispetto a questa cultura “altra”. Il brigantaggio e la povertà, endemica come le malattie, avevano contribuito -in parte grazie anche all’auto-esaltazione letteraria di alcuni valori che l’arretratezza portava con sé- a cristallizzare nell’immaginario culturale europeo questa idea della Calabria e dei calabresi che, del resto, poco o nulla hanno fatto per scrollarsela di dosso.
L’identità culturale dei calabresi non è che, così come ancora si configura dopo tanti secoli, un insieme di invenzioni, perlopiù basate su un uso disinvolto delle antichità, che si ritiene sia necessario seppellire per sempre perché falso e dannoso.