Nel libro XXIV, III di Ab Urbe condita libri leggiamo la pastorale descrizione che Tito Livio fornisce del tempio di Capo Lacinio.
« Un bosco sacro, isolato da una folta foresta e da alti abeti, chiudeva nel mezzo pingui pascoli, ove pasceva senza pastori ogni specie di animali consacrati alla dea, e gli armenti delle rispettive specie la notte rientravano in gruppi separati alle stalle, non mai insidiati né dalle fiere né dagli uomini. Grande era perciò il reddito che si traeva da quel bestiame, e con quello fu eretta e consacrata una colonna di oro massiccio, sì che il tempio era illustre non solo per la santità ma anche per le ricchezze » .
Una diversa traduttore riporta:
(Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXIV, 3, Mondadori, Milano, trad.: C. Vitali)
« Distava dalla nobile città sei miglia il tempio di Giunone, più nobile della stessa città , santa presso tutti i popoli. Ivi era un bosco sacro con fitta vegetazione, con alberi di alti abeti; in mezzo al recinto aveva lieti pascoli dove ogni genere di bestiame sacro alla dea pascolava senza alcuno pastore: a notte le greggi, separatamente, ciascuna secondo il suo genere, ritornavano alle stalle, giammai violati dalle insidie delle fiere o da inganni degli uomini ».
Dalla tarda età del bronzo si assistette ad uno caratterizzazione in senso agricolo dei luoghi di culto, normalmente costituiti appunto da “boschi sacri”, posti ai confini del territorio delle comunità indigene, con funzioni simili, quindi, o quelle dei santuari extraurbani d’età storica (come è quello di Hera Lacinia), cioè di punti di incontro e scambio tra le diverse popolazioni.
Sempre da Livio apprendiamo dell’esistenza di un lucus, termine che in latino individua un “bosco sacro ” ed è considerato da alcuni equivalente al greco àlsos, di uno selva rigogliosa e di alti abeti.
L’esistenza sul promontorio Lacinio di un bosco di alti abeti, descrittoci da Livio, costituito cioè da un’essenza arborea, forse relitto botanico del manto primigenio di conifere boreali, che doveva. rappresentare un’evidente difformità nell’ambito del paesaggio vegetale, di certo mediterraneo, potrebbe avere stimolato il suo riconoscimento come luogo sacro già da parte delle comunità indigene.
Successivamente anche i greci avrebbero incentrato, almeno in parte, le loro manifestazioni religiose su una realtà naturale “intrinsecamente carica di potere numinoso”.
Ma c’è un altro fatto. Il concetto stesso di temenos, cioè lo spazio sacro, delimitato, destinato alla divinità – che noi ben conosciamo a Capocolonna, poiché è rappresentato dalle monumentali mura di cinta – contiene in sé l’idea stessa del “bosco” che viene tagliato, per ricavarvi uno spazio da destinare agli dei. Infatti, il verbo greco temno, da cui temenos, significa “io taglio, io recido, io divido“. Quindi, il taglio di una parte del bosco primitivo, per ricavarvi un’area sacra, dove erigere un altare agli dei, è all’origine stessa del tempio: templum in latino significo “spazio libero “. E spesso lo spazio liberato dagli alberi veniva poi arato. Inoltre, il concetto di divisione, espresso dalla parola temno, sottolinea l’esigenza di separare lo spazio degli dei da quello degli uomini, ed anche il concetto di organizzazione dello spazio che è proprio della civiltà greca.
La tradizione attribuisce la fondazione del santuario a Herakles, dopo l’uccisione di Lakinios e di Kroton. Quest’origine, collegata con le migrazioni di Herakles, adombrerebbe, oltre i ricordi mitici di contatti con l’area egea, un tipo di relazioni “aggressive” proprie della colonizzazione achea, nei confronti delle popolazioni indigene. Il Lacinio, allora, potrebbe configurarsi come “santuario di frontiera”, un “luogo di contatto” tra greci ed indigeni, dove i rapporti tra culture diverse venivano sacralizzati in modo da superare eventuali conflitti.