Quel Codice dimenticato. Rintracciato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano il “Crotoniensis” del XIII secolo

E’ a Milano che abbiamo rintracciato il “Crotoniensis”, un importante codice greco dimenticato e misconosciuto, proveniente da Crotone, trascritto nel basso medioevo, da monaci che ben conoscevano il greco. Non ci sono elementi certi sulla localizzazione del centro di trascrizione, ma si possono fare delle ipotesi.

Datato tra il 1151 ed il 1250, il “Codex” parla della vita dei santi ed è scritto interamente in un bel greco antico, elegante ed ordinato. Sono 156 fogli (ogni foglio è doppio e contiene due facciate), pagine e pagine ancora inedite, e finora mai tradotte.

Questo prezioso manoscritto, non è andato dunque perso o distrutto, come è purtroppo capitato alle centinaia di codici greci copiati nella zona crotonese, dove la presenza di cenobi e laure basiliane si evidenzia in tutto il territorio, da Casabona a S. Severina, da Caccuri a Cerenzia, da Roccabernarda, a Cotronei, e Petilia Policastro.

Il “Crotoniensis” non si trova più a Crotone, poiché fu venduto, probabilmente da un privato nel 1606. Da allora custodito nel ricchissimo “Fondo manoscritti” della “Veneranda Biblioteca Ambrosiana“.

Interno della Biblioteca Ambrosiana

Si tratta di un manoscritto membranaceo, suddiviso in due titoli:
– “Synaxarium a die VI mensis septembris acephalum ad diem XX februarii imperfectum
– “Commentarium in Evangelia aut homiliarum series”.

Le pagine sono ben conservate e la maggior parte quasi intatte. Alcuni fogli presentano fori che potrebbero essere stati prodotti dalla fiamma di una candela. La scrittura elegante e fluida, è caratterizzata dall’uso di capolettere miniate, con svolazzi e decori, dai cosiddetti “fine riga” (motivi più o meno allungati, della stessa altezza delle lettere, che riempiono lo spazio lasciato vuoto sulla destra) e diversi “segni di paragrafo”.

La Biblioteca Ambrosiana, oltre che a custodirlo, si è occupata anche del restauro dell’opera, che venne affidato, non a caso, ( è una lunga storia di secoli), ai monaci basiliani del famoso Monastero di Grottaferrata, sui colli Albani. Dopo un certosino lavoro di recupero, effettuato ad opera dei monaci dell’abbazia, foglio dopo foglio, con tecniche antiche e grande perizia, il codice fu restituito all’ambrosiana, il 24 aprile del 1957.

Ma perché, dunque, la commissione venne affidata dall’Ambrosiana proprio a Grottaferrata? Non solo perché, come è noto, l’ “Officina del restauro del libro” del monastero, con la sua famosa scuola di paleografia greca, è tra le più accreditate nella materia, e vanta addirittura il restauro del “Codice Atlantico” di Leonardo. Ma anche perché, l’abbazia è legata alla
storia dei monaci basiliani calabresi, essendo stata fondata, nel 1004, da S. Nilo di Rossano, capo carismatico, eremita ed asceta, dedito alla preghiera ed allo studio, diviso tra la composizione di inni e la trascrizione dei testi sacri. Di credo cattolico e rito bizantino-greco, i monaci di Grottaferrata rappresentano ancora oggi la “Congregazione d’Italia” dei Monaci Basiliani, creata nella Chiesa cattolica per riunire i monasteri di rito Bizantino presenti nell’Italia meridionale.

Ma cosa c’entra, infine, S. Nilo con il nostro manoscritto “Crotoniensis”? Dalla datazione, dal luogo di copia e dalla calligrafia, risulta molto probabile, e gli studiosi di paleografia potranno confermarlo, che questo manoscritto possa appartenere proprio alla scuola “niliana”, creata dal santo di Rossano, che proseguì fin’ oltre il XIII sec, con la produzione di manoscritti liturgici e, in minor misura, ascetici. Nota per l’uso di alcune abbreviazioni, da cui il nome “tachigrafia greca niliana” , la scuola si identifica anche con la forma particolare, arrotondata ed elegante delle minuscole, dette appunto “niliane”.

Nel periodo di copia del “Crotoniensis” la scuola ebbe nuovo impulso, grazie all’opera del monaco Bartolomeo di Simeri, fondatore, sempre a Rossano, dell’abbazia di S. Maria del Patir, igumeno della stessa dal 1100 al 1130, che creò un nuovo stile, noto agli studiosi come “stile di Rossano”, caratterizzato da un’apertura della grafia italo-greca verso l’oriente e che influenzò la calligrafia greca di vaste zone della Calabria ed oltre.

Il Codex purpureus, il manoscritto più famoso

Il manoscritto più famoso custodito in Calabria é certamente il “Codex purpureus rossanensis”, un evangelario greco del VI sec., di origine mediorientale, che a Rossano venne portato probabilmente da qualche monaco in fuga dall’oriente, dalla Siria o dalla Palestina.

Fu lanciato all’attenzione della cultura mondiale nell’ultimo ventennio dell’ottocento, ad opera soprattutto degli studiosi tedeschi O. Von Gebhart e A. Harnack.

Il documento rossanese, vergato con caratteri onciali (maiuscoli) in oro e argento su pregiatissima pergamena color porpora, da cui l’aggettivo che lo indica, conserva 188 dei 400 fogli originari, della dimensione di circa cm. 30×20. Le pagine contengono il testo greco dei Vangeli di Matteo e Marco, quest’ultimo mutilo, e sono illustrate da quindici splendide miniature.

La preziosità del documento dipende dall’antichità, dal materiale scrittorio usato e dalle 14 tavole miniate che riproducono altrettante scene evangeliche. Legato a funzioni ostensive e devozionali, le miniature occupano i tre quarti della facciata, precedute dal passo evangelico di riferimento.

Il codice di Rossano è stato spesso accostato ad altri tre evangelari onciali purpurei, e sono pochissime le copie di questo tipo esistenti al mondo. C’è il “Codex Beratinus”, trovato a Berat e custodito a Tirana, il “Codex Petropolitanus” di Mosca ed il “Codex Sinopensis” custodito in Francia. Ma quello di Rossano è il più bello e pregiato, non lo diciamo noi, ma gli esperti di paleografia.

Per approfondire suggerisco la pagina: http://www.rossano.eu/il-codex-purpureus/

Ovviamente non si possono fare paragoni tra il manoscritto “Crotoniensis”, ed il Codice purpureo, che oltre ad essere più antico, ha delle decorazioni miniate che sono incredibilmente raffinate e che lo rendono un esemplare unico al mondo. Ma in ogni caso il “Crotoniensis”, di cui mai si è parlato e che qui non si conosce, riveste una sua importanza, intanto perché rappresenta la testimonianza di una storia che ha caratterizzato per secoli il territorio, e che non è stata mai ben valorizzata. Poi c’è la calligrafia, che rappresenta un ambito ed una scuola non troppo studiate. Ed il contenuto, di cui non si conosce ancora la traduzione.

m. v.

File:Miniuatura del codice purpureo, cattedrale di rossano calabro.jpg

Le laure, se gli asceti vivono nelle grotte

Disseminate nella provincia di Crotone, i seguaci di S. Basilio vi si rifugiarono per sfuggire ai persecutori

LE “LAURE”, piccole grotte ricavate sui pendii dei monti ed adibite a celle dai monaci basiliani, sono molto diffuse sul territorio crotonese. Attestano la presenza dei monaci provenienti dall’oriente, che vivevano nei cenobi una vita ascetica, dedita alla preghiera, allo studio ed alla trascrizione di testi sacri. Erano dunque molto colti, sapevano leggere e scrivere, si occupavano dell’istruzione e insegnarono i mestieri della pesca e dell’agricoltura alla popolazione locale. Grazie a loro, venne incrementata la coltivazione dell’ulivo e vennero importate varie colture, come il gelso, il carrubo e il pino d’Aleppo.

Si rifugiarono qui, ma in tutta la Calabria e in Salento, già dal VII secolo, scappando dall’Egitto o dalla Palestina, in seguito alle persecuzioni dei musulmani, che invadevano le terre asiatiche dell’impero bizantino. Nell’VIII secolo, i basiliani arrivarono in migliaia, spinti dalle persecuzioni iconoclaste, seguite all’editto emanato nel 726 dall’imperatore bizantino Leone III Isaurico, con il quale si ordinava la distruzione delle immagini sacre e delle icone in tutto l’Impero. I monaci furono dunque costretti a
nascondersi in luoghi isolati, nelle foreste e sulle pendici delle colline, in grotte che divennero luogo d’alloggio e di preghiera. All’ingresso delle laure c’era solitamente un’immagine della Madonna detta “Vergine Portinaia”, destinata, a custodire la grotta.

Nel crotonese le laure sono disseminate ovunque, famose quelle di S. Severina, ma anche Caccuri, Petilia Policastro, Cotronei. La più tipica delle grotte basiliane del crotonese si trova sulle montagne, tra S. Severina e Caccuri, su una collina a strapiombo sulla valle del Neto, conosciuta, come
la “Timpa dei Santi”. E’ scavata nella roccia, presenta tre piccole nicchie nella parete di fondo ed altre due nella parete laterali, ed ha la parete affrescata destinata alla celebrazione della messa. Nella cripta ci sono cinque icone, mai restaurate, che stanno finendo distrutte: la centrale, rappresenta il “Cristo Pantocratore”. In un’altra icona sono appena visibili le tracce della “Madonna Odigitria” (colei che istruisce, che mostra la direzione) ed i tratti della testa del Bambino Gesù.

m. v.

Caccuri, Grotta affrescata della Timpa dei Santi
Caccuri, Grotta affrescata della Timpa dei Santi
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