Sommario
Le Metamorfosi di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 17 d.C.) è un poema epico-mitologico attraverso cui Ovidio espone, poco prima dell’esilio dell’8 d.C., una lunghissima raccolta (più di 250) di miti dell’antichità classica, greca e romana, che spaziano dagli Dei pre-olimpici, fino alla tarda Repubblica romana di Giulio Cesare ed al primo Impero di Ottaviano Augusto.
Scritto in esametri, in quindici libri (per circa 12.000 versi), tutta la storia mitica del mondo è riorganizzata da Ovidio in una serie di racconti continuati, generalmente esposti seguendo l’ordine cronologico, anche se spesso Ovidio introduce eventi anteriori al fatto narrato o posteriori, collega le storie in base a rapporti familiari, elabora i racconti secondo affinità o diversità. Insomma si tratta di un racconto mosso e articolato, talvolta al limite dell’artificio, che mostra l’abilità del poeta di legare tra di loro storie che apparentemente non hanno un filo logico comune.
In questo grandissimo spazio temporale, Ovidio narra di innumerevoli miti, alcuni molto noti e famosi, altri invece pressoché sconosciuti, con l’intento insieme di istruire e dissacrare, proponendo un amore libero e liberato, veti e paure, con intenti essenzialmente blasfemi. Infatti, Ovidio vuole qui irridere soprattutto il potere ed una religione logora, asservita al potere, anticipando la caduta in disuso di tutti gli dei pagani, tuttavia senza cercare alcun altro Dio1.
Sintesi del Libro XV
Il libro XV delle Metamorfosi racconta dapprima aspetti mitologici del regno di Numa (Pompilio, secondo re di Roma) – per poi avviarsi verso l’epoca augustea.
vv. 1-551: Regno di Numa
vv. 12-59: Fondazione di Crotone
vv. 60-478: Pitagora e le trasformazioni naturali
vv. 479-551: Morte di Numa e disperazione di Egeria
vv. 497-546: Ippolito rinasce Virbio
vv. 552-621: Nascita della divinizzazione e vaticinio di Cipo
vv. 622-744: Esculapio sull’isola Tiberina
vv. 745-860: Morte e divinizzazione di Cesare
vv. 816-842: Profezia dei successi di Augusto
vv. 843-879: Congedo
Un viaggio di Numa a Crotone offre lo spunto per un’ampia digressione sulle origini della città, fondata da Miscello per volere di Heracles-Ercole, e soprattutto sull’illustre personaggio che l’ha eletta a sede della propria scuola, Pitagora. Al pensatore magno-greco è affidato un lungo discorso a sostegno delle teorie del mutamento continuo (una sorta di legittimazione scientifica dell’argomento mitologico prescelto da Ovidio), della non-violenza, del vegetarianismo e della metempsicosi, in una trattazione che trasforma il libro conclusivo in una piccola lezione di filosofia.
A Crotone Numa si sarebbe recato per soddisfare il suo appetito per la filosofia naturale ascoltando gli insegnamenti di Pitagora, un capitale culturale che poi porta con sé a Roma. Tuttavia c’è l’impossibilità
cronologica dell’incontro tra Numa (VIII secolo) e Pitagora (VI secolo), una questione che criticata già in età romana da Livio (I 18, 2-4), Cicerone (Rep. II 28-30 e in Dionigi di Alicamasso (Ant. Rom. II 59). Tuttavia, Ovidio non indica esplicitamente Pitagora, e pur richiamando il pensiero pitagorico, se ne discosta in alcuni passaggi. Inesattezze e digressioni sono accettabili, visto che si tratta di un poema, non di un saggio storico o filosofico.
Il libro XV dimostra “la sconfinata ammirazione di Ovidio per Pitagora, con accenti che ricordano la devozione di Lucrezio per Epicuro: il vir Samius del libro XV (versi 60-sgg.) corrisponde infatti perfettamente al Graius homo del De rerum natura, per non parlare dell’emozione con cui Ovidio riferisce delle investigazioni sulla natura operate da Pitagora2:
‘ … con la sua mente si è avvicinato agli dèi e con gli occhi del suo intelletto ha toccato quelle verità che la natura negava alla vista umana; e dopo averle esaminate tutte con la sua intelligenza e la sua instancabile attenzione, le metteva in comune da imparare a una accolta di discepoli trasognati e ammirati delle sue parole, e insegnava i primordi del vasto universo e i princìpi delle cose e l’essenza della natura …’
(Ov. met. XV 63-68: … Mente deos adiit (scil. Pythagoras) et, quae natura negabat/ visibus humanis, oculis ea pectoris hausit,/ cumque animo et vigili perspexerat omnia cura,/ in medium discenda dabat coetusque silentum/ dictaque mirantum magni primordia mundi/ et rerum causas et, quid natura (scil. esset), docebat …)
I versi da 75 a 478 sono esposti come una summa del pensiero pitagorico, che lo stesso filosofo esporrebbe a Numa in prima persona. Dopo un’apertura in cui si scaglia contro il mangiare carne, predicando invece dieta vegetariana, Pitagora prende a narrare i primordi del mondo e le «cause delle cose» come aveva fatto Ovidio all’inizio dell’opera: cosa sia la natura, cosa dio; l’origine della neve, del fulmine, dei terremoti; le leggi che governano i moti degli astri, tutto ciò che è nascosto e misterioso. Come se il maestro di Samo recitasse l’inizio della filosofia naturale (cioè di quella che sarà la scienza) e del pensiero filosofico stesso alla maniera di Aristotele nel primo libro della Metafisica, ma con il vigore poetico di un Lucrezio.
Ispirato da un dio (Apollo), Pitagora «canta», poi, l’immortalità dell’anima, e giunge – echeggiando Lucrezio («ogni cosa deve passare da uno stato ad un altro / e niente resta simile a se stesso: tutto si trasforma, / tutto è mutato dalla natura e costretto a cambiare»), e fornendo miriadi di esempi, dal tempo agli elementi, dal corpo umano alla Terra che nasce dall’acqua del mare – al cuore della sua argomentazione, a quel tutto muta, nulla muore, al tutto scorre, e ogni immagine si forma nel movimento, che sono l’eco precisa del panta rei di Eraclito, la sostanza stessa della poesia delle Metamorfosi, del divenire che le domina3.
Il libro XV spinge a considerare tutte le trasformazioni concretamente esaminate nel corso dell’opera come altrettante illustrazioni poetiche del principio secondo il quale “omnia mutantur, nihil interir” (XV, 165 ss.).
Soggetto o sostrato delle trasformazioni sono i quattro elementi, fuoco, aria, acqua e terra: tutto nasce da essi e in essi si risolve (“omnia fiunt ex ipsis et in ipsa cadunt“, XV , 239 ss.).
Si tratta di versi che ci danno la prova della distanza di Ovidio dal pitagorismo originario e della vicinanza alla dottrina empedoclea, poichè stante la testimonianza di Aristotele, i pitagorici non avevano una dottrina degli elementi, inoltre alcuni versi di Ovidio collimano perfettamente con i frammenti superstiti di Empedocle4.
In sostanza, Ovidio usa il “mito” come materia principale dell’opera, e dimostra di avere appreso le lezioni dei poeti e filosofi, di averle assimilate, ma anche di saper rimodellare i miti in maniera molto personale”.
Testo tradotto in italiano
- Si cerca intanto qualcuno che sia in grado di sostenere
- un onere così grave e succedere a un re così grande.
- L’opinione pubblica, che è misura del vero, designa
- l’illustre Numa: non solo conosce usi e costumi della gente
- sabina; non contento, con la sua mente fervida aspira a cose
- più grandi, dedicandosi a studiare la natura.
- Proprio questa passione l’indusse a lasciare Curi e la sua patria
- per spingersi sino alla città che aveva ospitato Ercole.
- E quando chiese chi fosse stato a fondare in terra italica
- quella città greca, uno degli anziani che vivevano in quel luogo,
- non digiuno di storia antica, così gli rispose:
- «Si dice che, con una moltitudine di buoi spagnoli, Ercole,
- dopo un viaggio felice, giungesse dall’Oceano al capo Lacinio
- e che, lasciata la mandria a vagare sui teneri prati,
- entrasse nella casa ospitale del famoso Crotone,
- placando col riposo sotto quel tetto l’immane sua fatica;
- e che poi partendo dicesse: “Al tempo dei nostri nipoti,
- qui sorgerà una città”. E la promessa si avverò.
- Nell’Argolide, infatti, nacque da Alèmone un certo Mìscelo,
- che fu in quel tempo la persona più cara agli dei.
- Una notte, mentre era immerso in un sonno profondo, Ercole,
- chinandosi su lui, gli disse: “Lascia la tua patria, via,
- e cerca del remoto Èsare la corrente ghiaiosa!”.
- E gli minaccia sciagure tremende se non avesse obbedito.
- Dopo di che, sonno e dio armato di clava svaniscono insieme.
- Il figlio di Alèmone si alza e ripensa in silenzio alla visione
- appena avuta, combattuto a lungo dall’indecisione:
- un nume gli ordina di andare, ma la legge vieta di partire
- e per chi vuole cambiare patria vi è la pena di morte.
- Nel mare aveva il sole immacolato nascosto il capo splendente
- e una notte fittissima aveva levato il suo capo stellato:
- riappare a Mìscelo lo stesso dio che gli ordina la stessa cosa
- e rincara la quantità delle minacce, se non obbedisce.
- Sgomento, si accinge a trasferire in un’altra terra
- la casa avita: un mormorio si diffonde per la città.
- L’accusa: disprezza la legge. E quando al termine dell’istruttoria,
- senza bisogno di testimoni, viene accertato il crimine,
- l’imputato in gramaglie, levando viso e mani agli dei, esclama:
- “O tu, che con le dodici fatiche ti sei meritato il cielo,
- aiutami, ti prego: se sono colpevole lo devo a te!”.
- Era costume antico usare sassolini bianchi e neri,
- questi per condannare gli imputati, quelli per assolverli.
- Anche allora la penosa sentenza fu emessa con questa regola,
- e tutti i sassolini immessi nell’urna atroce furono neri.
- Ma quando l’urna, capovolta, sparse i sassolini per il computo,
- il colore di tutti si mutò da nero in bianco,
- e la sentenza, resa favorevole per provvidenza di Ercole,
- mandò assolto il figlio di Alèmone. Ringraziato l’Anfitrionìade,
- suo difensore, Mìscelo col favore del vento
- solca il mare Ionio e oltrepassa Taranto, fondata
- dagli Spartani, Sibari, Vereto, città salentina,
- il golfo di Turi, Crìmisa e le piane della Iapigia;
- dopo aver percorso le terre che si affacciano sul litorale,
- trova per volontà del fato la foce del fiume Èsare
- e da lì, non lontano, il tumulo, sotto il quale riposano
- le venerate ossa di Crotone. In quel luogo, come ordinato,
- erige le mura della città che trae il nome dal sepolto».
- Queste le origini, come attesta sicura tradizione,
- di quel luogo e di quella città posta in territorio italico.
- Qui viveva in volontario esilio, per odio verso la tirannide,
- un uomo nativo di Samo, ma che era fuggito da quest’isola
- e dai suoi despoti. Costui si alzò con la mente sino agli dei,
- pur così remoti negli spazi celesti, e ciò che la natura
- nega alla vista umana, lo comprese con l’occhio dell’intelletto.
- E dopo aver sviscerato ogni cosa col pensiero e attento studio,
- insegnava alla gente, e a schiere di discepoli, che silenziosi
- pendevano dalle sue labbra, spiegava i princìpi
- dell’universo, il senso delle cose e l’essenza della natura,
- di dio, come si forma la neve, qual è l’origine dei fulmini,
- se è Giove o il vento a provocare i tuoni squarciando le nubi,
- che cosa scuote la terra, per quale legge vagano le stelle,
- e ogni altro mistero. Per primo biasimò che s’imbandissero
- animali sulle mense; per primo, ma rimase inascoltato,
- schiuse la sua bocca a questo discorso pieno di saggezza:
- “Evitate, mortali, di contaminare il corpo con vivande
- nefande. Ci sono i cereali, i frutti che piegano
- col loro peso i rami e i turgidi grappoli d’uva sulle viti.
- Ci sono erbe saporite ed altre che si possono rendere
- più gradevoli e tènere con la cottura. E poi non vi si nega
- il latte o il miele che conserva il profumo del timo.
- La terra vi fornisce a profusione ogni ben di dio per nutrirvi
- e vi offre banchetti senza bisogno d’uccisioni e sangue.
- Con la carne placano la fame gli animali e neppure tutti:
- cavalli, greggi e armenti vivono d’erba.
- Solo quelli d’indole feroce e selvatica,
- le tigri d’Armenia, i collerici leoni
- e i lupi, gli orsi gustano cibi lordi di sangue.
- Ahimè, che delitto infame è ficcare visceri nei visceri,
- impinguare un corpo ingordo rimpinzandolo con un altro corpo,
- mantenersi in vita con la morte di un altro essere vivente!
- Fra tutte le risorse che partorisce la terra, la migliore
- d’ogni madre, altro davvero non ti piace se non sbranare
- con ferocia carni straziate, rinnovando gli usi dei Ciclopi?
- Solo uccidendo un altro essere potrai forse placare
- il languore del tuo ventre vorace e sregolato?
- Eppure quell’antica età, che abbiamo chiamata dell’oro,
- era felice dei frutti degli alberi e delle erbe che produce
- la terra, e non contaminava la bocca col sangue.
- Gli uccelli allora battevano le ali tranquilli nell’aria,
- senza timore la lepre vagava in mezzo ai campi
- e il pesce, per sua ingenuità, non si ritrovava appeso all’amo:
- il mondo, senza insidie, senza alcun inganno da temere,
- era pervaso di pace. Ma poi un individuo sciagurato,
- chiunque sia stato, invidioso del vitto dei leoni,
- cominciò a inghiottire nell’avido ventre cibi di carne
- e aprì la strada al crimine. All’inizio, credo, il ferro
- si macchiò e s’intiepidì del sangue d’animali feroci;
- doveva bastare: uccidere bestie che cercavano
- di sbranarci non è, lo riconosco, un’empietà.
- Ma se era giusto ucciderle, non dovevamo poi nutrircene.
- Da lì lo scempio si spinse ben oltre: la vittima che per prima
- meritò di morire pare fosse il maiale, perché col grugno
- sconvolgeva i seminati annullando la speranza di un’annata;
- poi, perché brucava le viti, fu immolato sull’ara di Bacco
- per punizione il capro: a entrambi nocque il loro fallo.
- Ma voi che male fate, pecore, placide bestie nate
- per servire l’uomo, che nèttare portate nelle gonfie poppe,
- che donate la vostra lana per le nostre morbide
- vesti, che più utili ci siete vive che morte?
- Che male ci ha fatto il bue, animale incapace di frode e inganni,
- innocuo, semplice, nato solo per lavorare?
- Un bell’ingrato, indegno persino del dono delle messi,
- chi ha il coraggio d’uccidere il suo aiutante appena liberato
- dal peso del curvo aratro, chi tronca con la scure
- quel collo corroso dalla fatica, grazie al quale tante volte
- ha rianimato il duro suolo e immagazzinato raccolti.
- E non bastò che si accettasse un tale scempio: nel misfatto
- si coinvolsero persino i numi, con l’idea che gli esseri
- celesti godessero per la morte del laborioso giovenco.
- La vittima senza macchia e bellissima d’aspetto
- (guai essere troppo belli!), ornata tutta di bende e d’oro,
- e posta di fronte all’altare, ascolta ignara le preghiere,
- si vede collocare in fronte, fra le corna, il farro
- che lei stessa ha fatto crescere, e colpita tinge di sangue
- la lama, che forse ha intravisto in uno specchio d’acqua.
- E subito vengono esaminati i visceri, estratti dal petto
- ancora palpitante, per scrutarvi le intenzioni degli dei.
- E voi (tanta è nell’uomo la bramosia di cibi vietati)
- osate cibarvene, genia di mortali? No, non fatelo,
- vi supplico, ascoltate attentamente i miei ammonimenti,
- e quando al vostro palato offrite membra di buoi sgozzati,
- sappiate e abbiate coscienza che state mangiando i vostri coloni.
- E poiché è un dio a muovere le mie labbra, questo dio che muove
- le mie labbra io lo seguirò devotamente, e aprirò la mia Delfi
- e il cielo stesso, svelerò i responsi della sapienza divina.
- Grandi cose canterò, cose mai indagate dall’intelletto
- degli avi e rimaste nell’ombra. Giusto è spaziare fra gli astri
- sublimi, giusto sollevarsi da terra, da questi luoghi inerti,
- e portati dalle nubi, posarsi sul dorso forte di Atlante,
- guardando di lassù gli uomini che in lontananza, senza ragione,
- vagano inquieti, intimoriti dalla morte,
- e cercare di esortarli, spiegando le regole del destino.
- stirpe sbigottita dal terrore di una morte gelida,
- perché temete lo Stige, le tenebre, nomi privi di senso,
- nutrimento di poeti, pericoli di un mondo immaginario?
- I corpi, dissolti dalle fiamme del rogo o dai guasti del tempo,
- non sono più in grado di soffrire, questo è certo.
- Le anime invece non muoiono e sempre, lasciata l’antica sede
- e accolte in un nuovo corpo, vi si insediano e continuano a vivere.
- Io stesso, ricordo, al tempo della guerra di Troia
- ero il figlio di Panto, l’Euforbo che un giorno fu trafitto
- in pieno petto dall’asta violenta del minore degli Atridi:
- nel tempio di Giunone ad Argo, dove regna Abante, tempo fa
- ho riconosciuto lo scudo che allora armava il mio braccio.
- Tutto si evolve, nulla si distrugge. Lo spirito vaga
- dall’uno all’altro e viceversa, impossessandosi del corpo
- che capita, e dagli animali passa in corpi umani,
- da noi negli animali, senza mai deperire nel tempo.
- Come la cera duttile si plasma in nuovi aspetti,
- non rimanendo qual era e senza conservare la stessa forma,
- ma sempre cera è, così, vi dico, l’anima
- è sempre la stessa, ma trasmigra in varie figure.
- Dunque, perché la pietà non sia vinta dall’ingordigia del ventre,
- vi ammonisco, evitate d’esiliare con strage nefanda l’anima
- di chi può esservi parente, e che di sangue si alimenti il sangue.
- E poiché ormai mi sono inoltrato su questo vasto mare e al vento
- ho spiegato le vele: in tutto il mondo non v’è nulla che persista.
- Tutto scorre, ogni apparizione ha forma effimera.
- Lo stesso tempo fugge con moto incessante,
- non altrimenti del fiume: come il fiume infatti neppure l’ora
- può fermarsi nella fuga, ma come dall’onda è sospinta l’onda
- e quella che giunge è incalzata e incalza l’onda precedente,
- così svanisce e nello stesso istante ricompare il tempo,
- rinnovandosi di continuo: ciò che è stato si dissolve,
- ciò che non esisteva avviene, e ogni momento si ricrea.
- Tu vedi come al termine le notti tendano verso la luce
- e come lo splendore del sole succeda al buio della notte.
- Anche il colore del cielo non è il medesimo, quando ogni cosa
- giace stanca nel sonno e quando sorge splendente Lucifero
- sul suo bianco destriero; ed altro è ancora quando, all’alba,
- l’Aurora tinge il mondo prima d’affidarlo al Sole.
- E anche il disco di questo dio, quando al mattino sorge
- rosseggia e rosseggia quando tramonta all’orizzonte;
- ma al suo culmine è candido, perché lì più pura è la qualità
- dell’aria e lontano può sottrarsi alle esalazioni della terra.
- Né mai uguale a sé stessa può essere di notte
- la luna: sempre più piccola è oggi di domani
- se è in fase crescente, più grande se è in quella calante.
- E poi non vedi che l’anno si snoda in quattro stagioni diverse,
- come se cercasse d’imitare la nostra vita?
- Tenero, come un bambino che succhi ancora il latte,
- è l’anno a primavera: allora l’erba fresca e ancora elastica
- è turgida, morbida, e incanta di speranze i contadini;
- allora tutto fiorisce e del colore dei fiori sorride
- la campagna in sboccio, ma nelle fronde ancora non c’è forza.
- Dopo primavera, l’anno invigorito si trasforma in estate
- crescendo in baldo giovane: non c’è infatti stagione più robusta,
- stagione più feconda o ardente dell’estate.
- E viene l’autunno che, perduto il fervore della giovinezza,
- è maturo e mite, giusto in equilibrio fra un giovane
- e un vecchio, con qualche capello bianco sparso sulle tempie.
- Infine con passo incerto, senile e squallido, giunge l’inverno,
- spoglio dei suoi capelli o, se qualcuno gliene rimane, canuto.
- Anche il nostro corpo si modifica senza sosta,
- continuamente, e domani più non saremo ciò che siamo stati
- che siamo. Passato è il tempo in cui, come semplice seme,
- germe di nuova vita, alloggiavamo nel grembo materno.
- La natura intervenne con mani sapienti: non permise
- che il corpo racchiuso nel ventre teso della madre
- soffocasse e da quella dimora lo fece uscire all’aria aperta.
- Venuto alla luce, il bambino giace senza forze;
- poi, come un animale, trascina il suo corpo a quattro zampe;
- e a poco a poco, barcollando sulle gambe ancora un po’ malferme,
- riesce a drizzarsi, aiutando i muscoli con qualche sostegno.
- Diventato agile e vigoroso, trascorre la giovinezza,
- e quindi, passati anche gli anni della mezza età,
- si avvia al tramonto lungo il cammino in declino della vecchiaia.
- Questa corrode e distrugge il vigore dell’età
- precedente: e Milone invecchiato piange al vedere flaccide
- e cadenti le proprie braccia, che un tempo per la solidità
- della massa muscolare assomigliavano a quelle d’Ercole.
- E piange Elena, quando nello specchio scorge i segni del tempo,
- chiedendosi come abbiano potuto rapirla due volte.
- tempo divoratore e tu, vecchiaia invidiosa,
- tutto distruggete: dopo averla intaccata coi morsi degli anni,
- a poco a poco ogni cosa consumate di morte lenta.
- Neppure quelli che chiamiamo elementi rimangono immutati:
- prestatemi attenzione, vi insegnerò per quali vicende passino.
- Di quattro sostanze generatrici consta l’universo eterno:
- di queste, due sono pesanti, terra ed acqua,
- e per il loro peso sono trascinate in basso;
- le altre due sono prive di peso e, se nulla le tiene premute,
- tendono ad elevarsi, l’aria e, più puro dell’aria, il fuoco.
- Questi elementi sono separati nello spazio, e tuttavia
- da loro nasce ogni cosa e in loro ritorna. La terra fondendosi
- si liquefa in acqua, il liquido al tepore del vento
- evapora in aria, e l’aria a sua volta, privata del peso,
- balza verso l’alto e, rarefatta com’è, sprigiona fiamme.
- Poi il percorso s’inverte e il processo si ripete in senso opposto:
- il fuoco condensandosi si muta nell’aria che è più compatta,
- questa in acqua, e l’acqua coagulandosi forma la terra.
- Nulla conserva il proprio aspetto e la natura,
- che tutto rinnova, forgia da una struttura altre strutture;
- e nulla, credetemi, in tutto l’universo si dissolve,
- ma cambia assumendo nuovo aspetto; e noi nascere chiamiamo
- l’avvio ad essere ciò che non si era e morire
- cessare d’esserlo. E malgrado questo si trasformi in quello
- e quello in questo, l’insieme rimane sempre uguale.
- Ed io propendo a credere che nulla conservi lo stesso aspetto
- a lungo. E come dall’età dell’oro a quella del ferro è passato
- il tempo, così dei luoghi è mutato più volte il destino.
- Io ho visto farsi mare ciò che un tempo era terraferma,
- ho visto terre nascere dal mare, ho visto che lontano
- dai flutti vengono alla luce conchiglie marine
- e che si trovano antiche àncore in cima ai monti.
Approfondimenti
L’immagine di copertina è una Illustrazione tratta da “Ovide moralisé en prose II” di Maître de Marguerite d’York. 1470-1480
Il testo integrale il latino del Libro XV è consultabile nella Biblioteca Digitale del GAK.
Il testo integrale del Libro Quintodecimo delle Metamorfosi nella traduzione di Giovanni Andrea dell’Anguillara (1561) è reperibile in WikiSource.
Le considerazione di sintesi esposte nell’articolo solo solo alcune delle riflessioni critiche sulle Metamorfosi: per una esposizione più completa consultare la pagina di Wikipedia dedicata all’opera: https://it.wikipedia.org/wiki/Le_metamorfosi_(Ovidio).
Sull’argomento della fondazione di Crotone, consultare l’articolo dedicato.
Sulla figura di Miscello consultare l’articolo dedicato.
- Serafina Ferrarelli, Luigi Mussio, “Allargare i confini della Geomatica applicata: una lezione dall’antichità classica latina“, Asita, 2019 [↩]
- Arduino Maiuri, La simbologia del pavone tra tradizione pitagorica e mondo latino, in AA.VV., Andai al Palazzo per far conoscenza, Roma, EdUp, 2018, pp. 33-53 [↩]
- Piero Boitani, Ovidio. Storie di metamorfosi, Il Mulino, Year: 2020 [↩]
- Luciano Albanese, Bruno e il Pitagora di Ovidio, Bruniana & Campanelliana, Vol. 8, No. 2, 2002, pp. 489-494 [↩]